Io indulgo nell'usare il termine
bottegaio: mi piace perché è antico e descrive quello che sono. Oggi per la verità ha smesso di essere antico siccome lo usano i presidenti di grosse società per azioni perché non hanno la dignità di chiamarsi col loro nome (presidente di una SpA, appunto) e scippano il termine desueto per darsi un'aria rassicurante. Ma quelli non sono bottegai, sono fuffa. Il bottegaio è quello che alla fine della giornata spegne la luce, riordina, e chiude la saracinesca a chiave. La mattina dopo riapre alzando la stessa saracinesca e accende le luci e spazza il tratto di strada davanti alla porta: io sono quello, e chi usa la parola ma non apre una saracinesca da una vita non è come me.
Io sono un
blogger: che non ha niente a che vedere col giornalismo. Chi mi chiama giornalista (purtroppo succede) non capisce niente di cosa sia essere blogger e di cosa sia un blog, quindi bisogna ogni volta reinventare la ruota e rispiegarglielo: il blog è un sistema di comunicazione che serve a prolungare in maniera digitale quanto già accade in modalità analogica, cioè raccontare se stessi e dilatare gli orizzonti comunicativi nei modi che sono propri di questo mezzo libertario, anarchico e rivoluzionario. Non ci sono ordini, non ci sono cricche, conventicole, associazioni, esami di stato e cooptazioni: se vuoi essere blogger lo sei, bastano trenta secondi per registrare un account su una piattaforma qualsiasi. Da quel momento in poi funziona solo un tipo di controllo, che è la credibilità che acquisisci ogni volta daccapo, post dopo post, e ti viene accordata da chi ti legge: se sbagli paghi, immediatamente, i commenti sono un sistema di controllo orizzontale spietato. Se menti non avrai seguito. Se fai un refuso qualcuno correggerà. Se diffondi notizie false verrai segnalato come bugiardo, e la tua credibilità in rete diverrà zero. Il blog è (ribadisco) orizzontale e paritario, il giornalismo è verticale, paternalista, trombonesco. Salvo eccezioni che tuttavia confermano la regola.
Io sono un
wine blogger: scrivo di vino perché è il mio mestiere e credo di farlo con qualche decenza (sia il mestiere che la scrittura). Questo blog per esempio è nato quasi dieci anni fa come prolungamento digitale del mio lavoro, che è vendere vino, quindi parla quasi sempre dei vini che vendo. Ma siccome io sono anche un mediattivista scrivo di vino in senso lato, quindi anche di vini che non vendo, e del mondo che riguarda il vino. Non me l'ha ordinato nessuno ma mi va di farlo. Da questo skill è nata la mia collaborazione con altri editori che un bel giorno m'hanno chiamato e mi hanno detto: scrivi per me. Ad alcuni ho detto sì, ad altri no. Ho sempre fatto quello che mi andava, perché nessuno mi può dire quel che posso o non posso fare: è Internet, rassegnatevi.
Internet nonostante tutto è un ecosistema.
Così ho partecipato, in questi anni, a tante vicende editoriali in rete: Peperosso, Kelablu (cose che ormai nemmeno esistono). Poi Dissapore, poi Intravino, poi L'Unità, insomma, ho fatto quel che so fare: il wineblogger. Il meccanismo era sempre quello, orizzontale, trasparente e wikizzato. Intravino, poi, l'ho mollato per strada quando non mi andava più, e l'ho ripreso (preciso: mi hanno ripreso loro) quando mi andava di farlo. Ancora una volta, io faccio quel che mi pare: scrivo, racconto, intervengo, smanetto sul tema che mi è caro. Essendo un bottegaio. Se non vuoi leggere, c'è il back button. Puoi partecipare all'ecosistema, puoi imparare a godere dei suoi frutti, ma c'è una cosa che non ti riuscirà: impormi cosa posso o non posso fare.
(Per esempio, oggi mi andava di scrivere su Diario Enotecario, dopo qualche millennio, se non altro per aggiornarvi).