- La velocita' massima delle auto: 80 all'ora.
- La quantita' massima di proiettili in un caricatore: 4 (sempre troppi, comunque).
- Il numero di patatine nei sacchetti McDonald's: 10
- Quantita' massima di preservativi in una confezione: 1 (questa piacera' ai teocon).
- Il numero massimo di anni da prestare alla politica: 4 (in molti paesi civili la leggina gia' c'e', da noi curiosamente no).
Questo è un blog enoico. Il vino è un alimento totalmente diverso da qualsiasi altro: evolve, ha carattere ed è imprevedibile (come l'umanità, insomma). Per questo è interessante. E non è industriale.
mercoledì, gennaio 30, 2008
Facciamo a chi e' piu' liberal
Il "Liberal Democrat Greg Mulholland" ha avuto un'ideona niente male: diminuire la quantita' di vino servita a bicchiere; 125ml, e non i (troppo) popolari 175ml, o peggio i terrificanti 250ml. Insomma l'idea e' quella di diminuire la dimensione del bicchiere, non potendo far di meglio, tipo educare ad un consumo responsabile, e comunque lasciare libere le umane genti di decidere cosa caspita sia preferibile. La trovata si potrebbe definire carina, anzi, si potrebbe allargare ad altri ambiti. Qualche esempio a caso di possibili riduzioni virtuose, regolamentate per legge:
lunedì, gennaio 28, 2008
giovedì, gennaio 24, 2008
Assaggiatori di serie A
Segnalo l'imperdibile post apparso oggi su Vino: (si scrive cosi', coi due punti), il blog di Gentili & Rizzari, de L'espresso. Giovanni Bietti riordina gli appunti di una lunga verticale di annate, e si parla del Barolo di Borgogno. Lettura fondamentale (secondo me) pure per gettare uno sguardo sul meraviglioso mondo degli assaggiatori di serie A (un giorno, ci piacerebbe essere cosi').
L'insulsa vicenda del cosiddetto Tocai
[Disclaimer benaltrista: diciamolo, in questi giorni ci sarebbe ben altro su cui indignarsi, bloggare o soliloquiare; ma qui si insiste a vangare il circoscritto orticello vinoico, un po' come l'orchestrina sul Titanic, hai presente. Il fatto e' che, scavando, nell'orto trovi reperti utili a capire com'e' fatto l'italico suolo.]
L'insulsa vicenda del cosiddetto Tocai e' talmente nota che mi consente di rimandarvi a Google News affinche' i due-tre marziani, tra di voi, si aggiornino; quanto a me, ed al mio culto dell'autocitazione, me la sbrigo con due link, uno e due. Oggi, semmai, vi intratterro' sull'ultima genialata: "il vino con due nomi - Il vino bianco più bevuto in regione si chiamerà Tocai friulano o Friulano in Italia, solo Friulano all’estero. È il compromesso deciso dal ministero dell’Agricoltura in attesa della sentenza della Corte di giustizia europea". Sara' che io vedo il lato comico (o grottesco) ovunque, ma questa e' una notizia lollissima (big lol). Se la pensata, ovviamente definita "salomonica", sembra andare pure bene, qui si configurano situazioni del tipo: italiano che va all'estero con una bottiglia di (legittimo) Tocai, ma passando il confine non strappa l'etichetta; e chi ti incontra? Un ungherese (come nelle barzellette, c'e' un italiano, un ungherese...) e quello subito s'inalbera: "cos'hai li'? Tocai??" -- "Si, no, vabbe', e' Friulano" -- "Ma c'e' scritto Tocai! Maledetto italiano!" -- "Mangiatore di goulash!" E via con la rissa.
[Fotina gentilmente scippata a Il Nuovo Friuli. Grazie mille]
mercoledì, gennaio 23, 2008
Prove tecniche di degu verticale
Breve comunicato interno, per gli happy few che stanno nei dintorni. Accade che al momento io disponga di tre annate di Barolo di Bartolo Mascarello: 2000, 2001, 2003. Ci sono, poi, un paio di annate della sua Barbera d'Alba, 2005 e 2004. Tanto basta per una mini degustazione verticale su questo mito enoico. L'idea sarebbe di organizzare una degu pura e semplice, una sera a bottega, e poi una vera e propria cena in abbinamento ai Barolo e ad una Barbera, in combutta con un ristorante qui vicino. L'iniziativa in enoteca costera' 20 Euro a persona, la cena invece sara' sui 90 Euro; date e menu' sono ancora tutte da settare, ma per ora, chi fosse interessato, puo' farsi un nodo al fazzoletto (o prenotarsi).
[Update: siccome blogger.com ha grande cura della vostra privacy, non visualizzo la vostra email; per cui chi desidera essere aggiornato via posta elettronica circa le date della degustazione in enoteca, nonche' della cena, puo' validamente scrivermi qui, ed io provvedero' a allertarvi per tempo. Grazie!]
sabato, gennaio 19, 2008
MILF Barolo
La Stampa odierna propone un'interessante interpretazione del Barolo: il tempo e' una delle sue componenti quintessenziali, ed il suo potere seduttivo aumenta col passare degli anni; l'attesa, poi, accresce il desiderio, ed ecco che il Barolo diventa pure sexy. La lettura attiva alcune mie discutibili sinapsi, e del resto il peccato e' sempre negli occhi di chi guarda: la configurazione milfesca del Barolo m'e' piaciuta non poco. Il cronista de La Stampa fa riferimento ad un articolo apparso sul New York Times, firmato da Eric Asimov; incuriosito dal tono lascivo mi sono messo a caccia della fonte (che, pensa un po', non e' linkata) e credo d'averla trovata qui: ma forse ho cercato male, giacche' l'articolo del NYT non usa mai il termine "sexy"; neppure il post relativo alla degustazione dei Barolo, sul blog di Asimov, innesca pensieri lussuriosi riferiti al rosso di Langa; concludo che si tratta di una interpretazione un po' libera, ma mi va pure bene: approvo qualunque cosa che possa rendere appena un po' piu' irrituale l'enochiacchiera.
Archiviato l'aspetto lascivo, farei un paio di considerazioni a margine della lettura: consola il fatto che il New York Times, la stessa testata che scrisse di un'Italia depressa ed in decadenza, trovi elementi d'interesse nel nostro disastrato paese, la' dove sappiamo esprimere capacita' produttive uniche ed inimitabili; basta leggere l'entusiastica descrizione dei Barolo assaggiati da Asimov (peraltro cose gia' lette, ogni volta che si scriva di questo peculiare orgoglio nazionale) per poter riaffermare che, se ci salveremo, sara' pure grazie a questi àmbiti di eccellenza.
[Annotazioni supplementari: il termine "milf" ed il suo derivato "milfesco", contenuti in questo post, non sono presenti sul Paravia; ho tuttavia un'elevata stima del vostro skill informatico]
Archiviato l'aspetto lascivo, farei un paio di considerazioni a margine della lettura: consola il fatto che il New York Times, la stessa testata che scrisse di un'Italia depressa ed in decadenza, trovi elementi d'interesse nel nostro disastrato paese, la' dove sappiamo esprimere capacita' produttive uniche ed inimitabili; basta leggere l'entusiastica descrizione dei Barolo assaggiati da Asimov (peraltro cose gia' lette, ogni volta che si scriva di questo peculiare orgoglio nazionale) per poter riaffermare che, se ci salveremo, sara' pure grazie a questi àmbiti di eccellenza.
[Annotazioni supplementari: il termine "milf" ed il suo derivato "milfesco", contenuti in questo post, non sono presenti sul Paravia; ho tuttavia un'elevata stima del vostro skill informatico]
giovedì, gennaio 17, 2008
La bollicina rosa
Amo le bollicine, ultimamente in modo quasi esclusivo; a volte mi pare che le spumantizzazioni per me sono come il fritto in cucina ("fritta, e' buona pure una ciabatta"); traslato, con le bollicine mi berrei (quasi) di tutto. In effetti, "bollicine" significa metodo classico; Champagne, per lo piu'. Poi, nello specifico, ho questo gusto per le bollicine in rosa, i rosè insomma, che davvero berrei ogni giorno; il mio amore per la bollicina sta comprimendo pure la tolleranza che di solito ho per il mio cliente; quando questo afferma incauto "a me non piace lo Champagne" ho un brivido: come osi?
Nella bollicina rosa, poi, c'e' un aspetto estetico: e' bella a vedersi, appaga cromaticamente; c'e', soprattutto, la maggiore pienezza e la complessita' data dalla presenza dell'uva nera. In Italia la spumantizzazione in rosa prevede l'omonima vinificazione, e anche da questo consegue la maggiore levita' rispetto alla bollicina rosa in Francia, dove l'uso del coupage (taglio di vini-base bianchi, con vini rossi) genera rosè dal colore assai piu' vermiglio, e comunque spumanti di ancor maggiore polpa e consistenza. Giorni fa pero' il prelievo di scaffale e' toccato al Franciacorta Rosè 2003 di Ferghettina; il colore e' un rosa antico, assai bello, quasi elegante direi, se il termine si potesse usare per un colore; l'effervescenza e la spuma e' assai prorompente, perfino aggressiva nonostante i tre anni sui lieviti (ti aspetteresti una pressione piu' rarefatta). Il 2003 e' una sboccatura 2007 (lodevole retroetichetta) e questo mi fa pensare che ancora un po' di vetro non potra' che giovare alla ricomposizione di elementi "giovanili", cioe' durezza, acidita', che al momento sono ancora molto caratterizzanti. Il naso resta l'elemento godurioso, dove alle note da lievito si somma la frutta; curiosamente la bottiglia smezzata, riassaggiata il giorno dopo, presentava sentori aromatici di notevole complessita', e comunque un maggiore equilibrio; questo m'ha ricordato un utile trucco da sommelier: scaraffare il metodo classico; avete presente il decanter da rossoni maturi? Provate ad usarlo per un metodo classico: otterrete di ridurre la pressione di effervescenza (non a tutti e' gradita, a tutto pasto) e soprattutto di iperossigenare la bollicina, enfatizzando il corredo aromatico. E gia' che siamo in modalita' "consigli di Donna Letizia" ricordiamo pure che il metodo classico si beve a pasto, e non in abbinamento con la pasticceria (ma se c'era bisogno di precisarvelo, ve lo dico francamente, non eravate degni di questo blogghe); e soprattutto: buttate via gli orrendi flute, ed usate un bicchiere bello grande (tipo rosso medio).
martedì, gennaio 15, 2008
Cough, cough
L'immagine quassopra si riferisce a questo articolo del Corriere, oggi. Orsu', smettiamola con questi luoghi comuni, e' ovvio che il dipendente privato si ammala nella stessa identica misura del dipendente pubblico; l'unica differenza e' che va a lavorare lo stesso; lo scrivente, per dire, e' saldamente sul ponte di comando nonostante la tonsillite. E' pur vero che per un paio di giorni, la settimana scorsa, sopraffatto dal malessere ho latitato; ma il mio malefico capo (cioe' a dire io) non mi ha corrisposto alcuna indennita'. Sono in pieno conflitto sindacale con me stesso.
venerdì, gennaio 11, 2008
Elementi fenomenologici dell'enotecaro, inserito nella societa' moderna
Intro.
Dopo il mio outing, riassumibile in "francamente cambierei aria", Marco, qui, dedica il suo quarto sondaggio su "le opinioni del vino" alla figura dell'enotecaro, come dovrebbe essere e cosa dovrebbe fare; nell'indicarvi le sempre gloriose iniziative de I numeri del vino, provero' ad integrare i dati numerici con un alcuni sbrodolamenti verbosi, peraltro non esaustivi. Buon divertimento.
Chi e' l'enotecaro, e cosa caspita fa.
Ci sono (almeno) due tipi di enoteche: i quasi-ristoranti, e le botteghe che vendono vino, senza sbicchierarlo; rientrando io nella seconda categoria, trattero' di tale configurazione. All'interno di quest'ambito, poi, spesso le enoteche vendono, assieme al vino, alimentari selezionati; non e' il mio caso, io vendo solo vino e pochi distillati, sono duro-e-puro (o iperspecializzato, fate vobis). Tutto questo per dire che l'enoteca e' un concetto un po' nebuloso, quindi eviterei di addentrarmi in ulteriori distinguo, ma focalizzerei le possibili mission (ammesso che ne abbia; certo che scrivere mission fa sempre figo, eh). Questo serve piu' che altro per definire il commerciante dettagliante, prescindendo dall'ambito. Quindi, in generale, l'enotecaro e' un bottegaio che vende vino.
Il bottegaio va alla guerra.
Nell'anno di grazia duemila e otto la figura del dettagliante deve considerare, con attenzione, la sua funzione e la sua utilita' nell'ambito delle dinamiche della distribuzione moderna. Deve, cioe', valutare cosa vendere, e come, all'interno di un meccanismo distributivo che, con spietata precisone, vede la GDO (Grande Distribuzione Organizzata, supermercati) come referente istituzionale, in quanto piu' razionale, piu' bella, piu' tutto; non mi dilunghero' affatto a dir male della GDO, ma vi rimando alla lettura definitiva in materia. Del resto, curiosamente, non ho una cattiva opinione della GDO in senso assoluto, semmai tengo a dire che io, e loro, facciamo mestieri diversi. Tuttavia, nel corso degli ultimi trent'anni, meccanismi che non a caso ho definito spietati hanno concorso a presentare la GDO come formula distributiva non solo migliore, ma quasi esclusiva; in un mondo di ipermercati sberluccicanti s'e' consumata la strage di centinaia di negozi di quartiere; la razionalizzazione della distribuzione, intanto, sembra lontana dall'avverarsi, visto che il gigantismo della GDO richiede transumanze bibliche di merci standardizzate, prodotte da industrie, che ingolfano ogni via del belpaese; eppure, tra l'altro, la razionalizzazione della distribuzione e' stata, da sempre, la cifra qualificante della supremazia della GDO sulle botteghe. Come dicevo, nell'attesa fu strage; io lavoro in una via che, negli anni cinquanta, era una via piena di negozietti; i vecchi (mi) ricordano ancora che ogni basso era un punto vendita di frutta e verdura (era una via specializzata in verdurai e vinai, pare). Oggi chi ripercorre a piedi via Donizetti, senza inciampare in un asfalto indegno del Botswana, vedra' solo box auto; i negozi sono diventati custodie per il piu' amato dei simulacri. Dove sono andati tutti i commercianti? Sono finiti, silenziosamente, nel cimitero delle partite IVA. Loro non fanno prigionieri, e noi, uno dopo l'altro, stiamo cadendo. A meno che non si capisca come reagire, in una logica di guerriglia.
Il delirio del bottegaio Vietcong.
Quando il nemico e' soverchiante, quando non fa prigionieri, non ha alcun senso fronteggiarlo; meglio, non ha alcun senso continuare la battaglia; paradossalmente, bisogna riconoscere quando la guerra e' persa, e dedicare le energie ad altro. Cosi' facendo si riesce meglio a focalizzare l'aspetto dell'utilita' sociale del commerciante; oggi il lavoro del commerciante deve per forza di cose porsi come propositivo, ed alternativo alla GDO, affinche' possa in qualche modo dirsi socialmente utile. Questo significa, nello specifico, abbandonare al loro destino i brand da supermercato, e recuperare la funzione del mercante (il secondo mestiere piu' antico del mondo) mettendosi alla ricerca di produzioni alternative, artigianali, qualitative; questo, in poche parole, significa smarcarsi da un confronto impossibile, e recuperare utilita' sociale. A questo riposizionamento, non lo nego, e' connesso pure un aspetto "ideologico", la' dove ideologicamente io propongo di non essere piu' tramite di vendita per marchi che non hanno nulla di originale, che non costituiscono affatto un servizio al consumatore finale. Sono, poi, parte integrante del meccanismo che ci stritola. Facciamo un esempio concreto.
Molto tempo fa un mio collega agghindo' la sua vetrina di Berlucchi; quel collega e' un opinion leader, e mi capito', nei miei soliti modi sarcastici, di apostrofarlo cosi': "spero bene che Berlucchi ti paghi regalandoti un bancale, e non certo che tu paghi lui, siccome gli stai preparando, a lui e alla Coop, le vendite di Natale". Ed infatti quel Natale Berlucchi era sottocosto alla Coop (eccoli, i famosi meccanismi spietati) ed il collega fece la solita figura dell'utile idiota, della cinghia di trasmissione nel motore della comunicazione. Perche' facciamo questo? Perche' ci riduciamo a fare gli utili idioti per lorsignori, e non ci riappropriamo di una funzione che avrebbe senso commerciale? Perche' siamo pigri, e in un certo senso ce lo meritiamo pure, d'essere falciati via senza pieta'.
Se vogliamo in qualche modo essere alternativi, dobbiamo, anche "ideologicamente", dire no a certi brand. Questo, va detto, resta una mia personalissima teoria, peraltro assai inapplicata da quasi tutti i commercianti, i quali strillano contro l'apertura di supermercati, contro le vendite sottocosto, cioe' combattono le famose battaglie perse in partenza, senza decidersi a cambiare la strategia, e senza capire che siamo, ormai quasi tutti, Vietcong.
Si, vabbe', ma allora?
Ovvio che le cose non sono cosi' semplici. Andare a fare la vita del Vietcong, vivere in una buca e mangiare vermi, non e' assolutamente appealing; fuori di metafora: mediamente, il bottegaio non si sbatte volentieri, meglio vendere quelle due o tre griffe che che ti chiede la massa, piuttosto che ammazzarsi essendo propositivi. Eppure, a costo di restare minoritario a vita, io credo che questa sia una delle poche vie seriamente percorribili, per chi vuole dirsi commerciante, e non porgitore. Oltretutto, tornando al mio ambito ristretto, questo e' un settore fortemente disintermediato, dove il prodotto si puo' validamente acquistare alla fonte, quindi l'enotecaro deve moltiplicare gli sforzi per giustificare il valore aggiunto. Questo si ottiene, credo, attraverso l'originalita' della proposta, dandosi un gran daffare, essendo selettivi, essendo competenti. Si ottiene avventurandosi in importazioni dirette di Champagne, piuttosto che gabellare Veuve Cliquot. Il tutto, cercando di reggere agli scricchiolii strutturali che si sentono da un po', siccome il mondo si comporta schizofrenicamente, dice "recuperiamo i negozi di un tempo" poi raddoppia le uscite al casello che serve il prossimo ipermercato, mantenendo gli arredi urbani della citta' vecchia ad un livello difficilmente comprensibile.
Questo e' un mondo complicato, e anche per questo voglio riflettere su che fare.
[La foto che correda questo post ritrae mio padre, alla fine degli anni '40, davanti alla sua prima osteria, a Genova, quartiere Foce. Non aveva ancora trent'anni.]
Dopo il mio outing, riassumibile in "francamente cambierei aria", Marco, qui, dedica il suo quarto sondaggio su "le opinioni del vino" alla figura dell'enotecaro, come dovrebbe essere e cosa dovrebbe fare; nell'indicarvi le sempre gloriose iniziative de I numeri del vino, provero' ad integrare i dati numerici con un alcuni sbrodolamenti verbosi, peraltro non esaustivi. Buon divertimento.
Chi e' l'enotecaro, e cosa caspita fa.
Ci sono (almeno) due tipi di enoteche: i quasi-ristoranti, e le botteghe che vendono vino, senza sbicchierarlo; rientrando io nella seconda categoria, trattero' di tale configurazione. All'interno di quest'ambito, poi, spesso le enoteche vendono, assieme al vino, alimentari selezionati; non e' il mio caso, io vendo solo vino e pochi distillati, sono duro-e-puro (o iperspecializzato, fate vobis). Tutto questo per dire che l'enoteca e' un concetto un po' nebuloso, quindi eviterei di addentrarmi in ulteriori distinguo, ma focalizzerei le possibili mission (ammesso che ne abbia; certo che scrivere mission fa sempre figo, eh). Questo serve piu' che altro per definire il commerciante dettagliante, prescindendo dall'ambito. Quindi, in generale, l'enotecaro e' un bottegaio che vende vino.
Il bottegaio va alla guerra.
Nell'anno di grazia duemila e otto la figura del dettagliante deve considerare, con attenzione, la sua funzione e la sua utilita' nell'ambito delle dinamiche della distribuzione moderna. Deve, cioe', valutare cosa vendere, e come, all'interno di un meccanismo distributivo che, con spietata precisone, vede la GDO (Grande Distribuzione Organizzata, supermercati) come referente istituzionale, in quanto piu' razionale, piu' bella, piu' tutto; non mi dilunghero' affatto a dir male della GDO, ma vi rimando alla lettura definitiva in materia. Del resto, curiosamente, non ho una cattiva opinione della GDO in senso assoluto, semmai tengo a dire che io, e loro, facciamo mestieri diversi. Tuttavia, nel corso degli ultimi trent'anni, meccanismi che non a caso ho definito spietati hanno concorso a presentare la GDO come formula distributiva non solo migliore, ma quasi esclusiva; in un mondo di ipermercati sberluccicanti s'e' consumata la strage di centinaia di negozi di quartiere; la razionalizzazione della distribuzione, intanto, sembra lontana dall'avverarsi, visto che il gigantismo della GDO richiede transumanze bibliche di merci standardizzate, prodotte da industrie, che ingolfano ogni via del belpaese; eppure, tra l'altro, la razionalizzazione della distribuzione e' stata, da sempre, la cifra qualificante della supremazia della GDO sulle botteghe. Come dicevo, nell'attesa fu strage; io lavoro in una via che, negli anni cinquanta, era una via piena di negozietti; i vecchi (mi) ricordano ancora che ogni basso era un punto vendita di frutta e verdura (era una via specializzata in verdurai e vinai, pare). Oggi chi ripercorre a piedi via Donizetti, senza inciampare in un asfalto indegno del Botswana, vedra' solo box auto; i negozi sono diventati custodie per il piu' amato dei simulacri. Dove sono andati tutti i commercianti? Sono finiti, silenziosamente, nel cimitero delle partite IVA. Loro non fanno prigionieri, e noi, uno dopo l'altro, stiamo cadendo. A meno che non si capisca come reagire, in una logica di guerriglia.
Il delirio del bottegaio Vietcong.
Quando il nemico e' soverchiante, quando non fa prigionieri, non ha alcun senso fronteggiarlo; meglio, non ha alcun senso continuare la battaglia; paradossalmente, bisogna riconoscere quando la guerra e' persa, e dedicare le energie ad altro. Cosi' facendo si riesce meglio a focalizzare l'aspetto dell'utilita' sociale del commerciante; oggi il lavoro del commerciante deve per forza di cose porsi come propositivo, ed alternativo alla GDO, affinche' possa in qualche modo dirsi socialmente utile. Questo significa, nello specifico, abbandonare al loro destino i brand da supermercato, e recuperare la funzione del mercante (il secondo mestiere piu' antico del mondo) mettendosi alla ricerca di produzioni alternative, artigianali, qualitative; questo, in poche parole, significa smarcarsi da un confronto impossibile, e recuperare utilita' sociale. A questo riposizionamento, non lo nego, e' connesso pure un aspetto "ideologico", la' dove ideologicamente io propongo di non essere piu' tramite di vendita per marchi che non hanno nulla di originale, che non costituiscono affatto un servizio al consumatore finale. Sono, poi, parte integrante del meccanismo che ci stritola. Facciamo un esempio concreto.
Molto tempo fa un mio collega agghindo' la sua vetrina di Berlucchi; quel collega e' un opinion leader, e mi capito', nei miei soliti modi sarcastici, di apostrofarlo cosi': "spero bene che Berlucchi ti paghi regalandoti un bancale, e non certo che tu paghi lui, siccome gli stai preparando, a lui e alla Coop, le vendite di Natale". Ed infatti quel Natale Berlucchi era sottocosto alla Coop (eccoli, i famosi meccanismi spietati) ed il collega fece la solita figura dell'utile idiota, della cinghia di trasmissione nel motore della comunicazione. Perche' facciamo questo? Perche' ci riduciamo a fare gli utili idioti per lorsignori, e non ci riappropriamo di una funzione che avrebbe senso commerciale? Perche' siamo pigri, e in un certo senso ce lo meritiamo pure, d'essere falciati via senza pieta'.
Se vogliamo in qualche modo essere alternativi, dobbiamo, anche "ideologicamente", dire no a certi brand. Questo, va detto, resta una mia personalissima teoria, peraltro assai inapplicata da quasi tutti i commercianti, i quali strillano contro l'apertura di supermercati, contro le vendite sottocosto, cioe' combattono le famose battaglie perse in partenza, senza decidersi a cambiare la strategia, e senza capire che siamo, ormai quasi tutti, Vietcong.
Si, vabbe', ma allora?
Ovvio che le cose non sono cosi' semplici. Andare a fare la vita del Vietcong, vivere in una buca e mangiare vermi, non e' assolutamente appealing; fuori di metafora: mediamente, il bottegaio non si sbatte volentieri, meglio vendere quelle due o tre griffe che che ti chiede la massa, piuttosto che ammazzarsi essendo propositivi. Eppure, a costo di restare minoritario a vita, io credo che questa sia una delle poche vie seriamente percorribili, per chi vuole dirsi commerciante, e non porgitore. Oltretutto, tornando al mio ambito ristretto, questo e' un settore fortemente disintermediato, dove il prodotto si puo' validamente acquistare alla fonte, quindi l'enotecaro deve moltiplicare gli sforzi per giustificare il valore aggiunto. Questo si ottiene, credo, attraverso l'originalita' della proposta, dandosi un gran daffare, essendo selettivi, essendo competenti. Si ottiene avventurandosi in importazioni dirette di Champagne, piuttosto che gabellare Veuve Cliquot. Il tutto, cercando di reggere agli scricchiolii strutturali che si sentono da un po', siccome il mondo si comporta schizofrenicamente, dice "recuperiamo i negozi di un tempo" poi raddoppia le uscite al casello che serve il prossimo ipermercato, mantenendo gli arredi urbani della citta' vecchia ad un livello difficilmente comprensibile.
Questo e' un mondo complicato, e anche per questo voglio riflettere su che fare.
[La foto che correda questo post ritrae mio padre, alla fine degli anni '40, davanti alla sua prima osteria, a Genova, quartiere Foce. Non aveva ancora trent'anni.]
martedì, gennaio 08, 2008
Chi beve Cina (campa cent'anni)
L'infotainment sul vino e' da sempre contraddittorio: il vino fa bene, anzi no, fa male; il vino ti allunga la vita, anzi no ti spedisce al creatore; cose note, e questa non e' la notizia. La notizia e' che i cinesi hanno pensato bene di piazzare una bella modifica genetica nel loro vino aumentandogli artificialmente la percentuale di resveratrolo (anvedi questi) cosicche' il vino cinese allungherebbe la vita al suo bevitore [link nr. 1]. I nostri della Coldiretti mandano subito a dire: no, grazie, il supervino cinese non ci serve; nello specifico, essi affermano che "se forti perplessità si evidenziano sulla qualità del prodotto ottenuto, considerata l'attuale offerta di vino in Cina, vale la pena di sottolineare che nei vini italiani le sostanze antiossidanti che proteggono le arterie dall'invecchiamento, i cosiddetti polifenoli, sono contenute naturalmente in misura doppia rispetto ai concorrenti californiani e addirittura quattro volte in più degli analoghi francesi" [link nr. 2].
E cosi' in un sol colpo Coldiretti riesce a dire ai cinesi che:
1) il loro vino, al momento, e' una mezza ciofeca; e
2) noi, comunque, ce l'abbiamo piu' lungo (il livello di antiossidante).
Bravi, cosi' si fa, flettiamo un po' questi muscoli. Resta irrisolto l'aspetto salutistico: l'OGM cinese fara' bene davvero? Forse che per saperlo, dovremo berne a ettolitri? E questo, poi, fara' bene?
venerdì, gennaio 04, 2008
Anno nuovo, polemicuccia vecchia
"Anche il mondo del vino sembra essersi reso conto dell'importanza di Internet - i produttori utilizzano sempre più strumenti come blog, forum e newsletter". Cosi' annunciata, questa lieta novella di Reuters meritava un clic, giusto per vedere di chi si parla. Spiace rilevare, da subito, un irritante vezzo: si elenca una serie di siti, senza nemmeno un link. Scusate il momento-indignodromo, ma siccome pure il neanderthaliano enomondo "si rende conto dell'importanza di Internet", che ne direste, signori Reuters, di fare altrettanto? Vi pesa un tag? Mah, e doppio mah.
Comunque, il non linkato Winenews.it narra, appunto, che i produttori si starebbero attrezzando per il due-punto-zero (era circa mezz'ora che non scrivevo due-punto-zero, stavo gia' in crisi). Winenews ovviamente linka tutti, e io sono felice di non dovermi digitare ogni url; clicco il primo, il secondo, il terzo in ordine di presentazione; soliti sitarelli fighetti in flash, pop up e musichette, che nostalgia, gli anni '90; pure qualche scivolone (Caprai invita a cantine aperte 2007); ma su queste cose non si deve maramaldeggiare, nessuno e' perfetto; semmai complimenti a florio.it, che disabilita la funzione backbutton tenendoti prigioniero nella loro home; questa, in termini strettamente informatici, si definisce "vaccata". Alla fine, scorsi cinque-sei link, indovina? Nessuno ha un blog, nemmeno un forum (peraltro inutillimo). Che film hanno visto, i signori Reuters?
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