Qualche giorno fa ero ad un evento. Il termine evento col suo suono grandioso serve ad identificare, nel giro, qualsiasi fiera vinosa, quindi lo uso anch'io con una certa sicumera. L'evento prevedeva svariati dibattiti e ad un certo punto ha preso la parola una persona, presentata in quanto wine blogger. Questo ha detto cose interessanti, peraltro note e condivisibili, circa la (ancora) scarsa confidenza col mezzo digitale di alcune aziende vinicole, eccetera eccetera. Quello che però per me è stato interessante era la reazione del pubblico, quando chi moderava ha annunciato la parola "wine blogger". Tra l'uditorio c'era un mormorio sorpreso, l'oggetto dell'ostensione di fatto pareva una strana bestia rara, e solo evocare in mezzo a quelli la dimensione internettiana delle conversazioni sul tema ha generato qualche tipo di brivido.
Oggi, leggendo questo post dal quale peraltro ho ricavato il titolo, ottengo per la millesima volta la prova provata che siamo bestie strane. Io ho da sempre una specie di pudore a qualificarmi wine blogger, ma commetto un errore. Anche perché:
"Può essere vero per l’Italia che è probabilmente il Paese più tradizionalista del mondo dopo la Persia di Serse, e dove “blogger” si traduce con figlio di un dio minore. Poco importa che il penultimo Pulitzer lo abbia vinto un blogger [...]. Siamo veramente fuori dal tempo riguardo queste cose, perché siamo sempre stati un Paese che predilige la forma alla sostanza: puoi avere le pezze al culo e lavorare per trenta euro per articoli orribili che fra cinque anni probabilmente scriverà un algoritmo (meglio, forse) ed essere un giornalista".